Il mio lavoro consiste nel produrre foto; con il passare degli anni questa mia attività mi ha allontanato dalle parole scritte e da quelle dette. Anche Antonella D'Onorio la pensa così: mi ha consegnato una scatola con dieci immagini, dieci volti di bambini, dieci tagli identici. Sono immagini semplici ad un primo esame, profonde se lo sguardo indugia su particolari e atmosfere. Semplici e profonde, dunque, come il gesto di consegnare la scatola telata che le conteneva. Mute come il viso del mittente. Il viso e la bocca serrata, nessuna parola per spiegarne il contenuto; mute come me ora, che le osservo, analizzo le mie responsabilità riflesse negli occhi di questi bambini balcanici figli dei miei vicini di casa. Mute come chiunque le abbia osservate. Il silenzio è la caratteristica di queste immagini, un silenzio fatto di geometrie e ritmi, ma anche di rivendicazioni. Quando si parla di bambini e di ritratti si tira fuori la regola aurea che chi fotografa non deve sovrastare chi è fotografato; Antonella non abbassa il suo punto di vista, lo tiene volutamente alto. Non c'è ideologia nel suo pensiero, non è influenzata dalla pedagogia; il suo lavoro non è intriso di costrizioni formali o accademiche cretinerie.
Semmai le foto mi dicono che Antonella è una ex bambina, e che ha mantenuto tutta la sua solidarietà nei confronti dei suoi simili, e mi dicono ancora che è consapevole del suo ruolo: è una fotografa, e quindi è li per narrarci qualcosa. E quello che ci racconta è la guerra che è passata e quella che verrà. È il 1998: Sarajevo è libera, ma il conflitto in Kosovo non è ancora esploso. Lei ci racconta dei quartieri devastati della città simbolo dell'assedio e della resistenza e dei campi profughi che ospitano bambini kosovari. È la guerra che schiaccia i bimbi che fa dei loro occhi laghi di tristezza, che ne indurisce i volti. C'è una foto diversa dalle altre: due bretelle scure solcano il maglioncino bianco di una bambina che accenna un sorriso, un muto sorriso di speranza. Questo Antonella ci comunica, e lo fa in modo originale inibendo il gioco delle provenienze o delle parentele fotografiche. Do ancora uno sguardo alle foto appoggiate in fila sulla parete che ho di fronte. È un'ora e mezzo che le osservo: tanto quanto dura un film. È ormai notte fonda, e il silenzio delle immagini si assomma a quello della città che dorme, ma basta chiudere gli occhi per essere aggredito da un boato: sono urla, rombi di cannone, bestemmie e grida di speranza, crepitìi di armi e pianti. Per qualche istante cerco di distinguere i significati tra le parole urlate e sussurrate, cerco di individuare i diversi suoni. Quasi un dolore fisico mi costringe ad alzarmi e a riporre le foto nella scatola, come a nascondere un cadavere imbarazzante. Funziona, il rumore si abbassa e poi lentamente sparisce. La quiete riconquistata mi fa pensare che è più facile occultare la realtà per non essere costretti a fare i conti con la propria coscienza, e mi riporta al vuoto sonoro degli sguardi ritratti, un silenzio intenso talmente forte da rendere sordi.
© Gente di Fotografia – Anno VII - n. 26 - Autunno 2000